La Suprema Corte afferma che la declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento, nel caso in cui la retrocessione di azienda intervenga dopo l’intimazione dei licenziamenti, sono condizioni essenziali affinchè il rapporto di lavoro possa proseguire con l’imprenditore cessionario.
La sentenza n.8039/2022 dispone che l’art.2112 c.c. ordina la prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario ed il conseguente mantenimento delle condizioni economiche maturate dal lavoratore nel caso in cui quest’ultimo abbia provveduto ad impugnare il licenziamento comminato dalla Società cedente nei termini di legge, ovvero prima della retrocessione del ramo di azienda.
In caso contrario, i licenziamenti non possono essere annullati, con la conseguenza che non risulterà più possibile applicare le tutele disposte dall’art.2112 c.c. derivanti dall’accertamento del trasferimento di azienda.
Nello specifico, nell’ipotesi in cui prima della retrocessione del ramo di azienda il cedente abbia comminato il licenziamento del lavoratore, il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario presuppone l’intervenuta impugnativa del licenziamento nei termini di legge. Infatti, l’art.2112 c.c. dispone che il rapporto di lavoro sia cronologicamente ancora in capo all’imprenditore cedente quando interviene la restituzione del ramo di azienda.
La condizione innanzi meglio rappresentata, tuttavia, non sussiste se il lavoratore, nel periodo previsto per tale passaggio tra cedente e cessionario, non ha provveduto ad impugnare il licenziamento comminatogli, incorrendo nelle decadenze previste in materia dall’art.6 della Legge n.604 del 1966.
Ne deriva, in conclusione, che prima del trasferimento di azienda, in caso di licenziamento comminato da parte dell’imprenditore cedente, il lavoratore debba provvedere ad impugnare il licenziamento comminatogli al fine di poter proseguire il proprio rapporto di lavoro con l’imprenditore cessionario.